Pupi Avati: «Il mio Dante, un uomo come tutti noi»
Le luci della proiezione riservata si spengono e il film Dante inizia. Il regista, Pupi Avati, è seduto a pochi centimetri da noi. Seguiamo così la storia del vero viaggio che Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) nel 1350 compì per portare 10 fiorini d'oro a suar Beatrice, figlia di Dante, monaca a Ravenna, come risarcimento simbolico da parte di Firenze per l'esilio a cui il poeta era stato condannato. Questa storia si intreccia a un'altra, che vede protagonista un giovane Dante prima timido e impacciato a causa dell'amore impossibile per Beatrice, poi soldato contro Arezzo e infine priore, un ruolo politico che lo porterà alla rovina. In tutte queste traversie, seguiamo il fiorire del suo genio poetico. Finito il film, tratto dal suo romanzo L'alta fantasia (Solferino), usciamo dalla sala e chiediamo ad Avati se in Boccaccio e nelle lacrime che versa per la gioia che Dante gli ha donato con i suoi versi ha raffigurato sé stesso. Il regista risponde: «Questo film nasce come atto di riconoscenza verso Dante, che ho scoperto tardi. Io fino a trent'anni ero di un'ignoranza abissale. Poi ho iniziato a fare il cinema e ho conosciuto i grandi sceneggiatori di allora: Age, Scarpelli, Rodolfo Sonego, Franco Arcalli. Erano tutte persone coltissime e quando parlavano tra loro stavo zitto per non fare brutta figura. Allora ho cominciato a leggere, e così ho scoperto anche Dante». Un poeta immenso, ma almeno nel suo film non si può di certo dire che sia stato un uomo probo. «Boccaccio nella sua biografia Trattatello in lode di Dante lo descrivo come un lussurioso. Ha abbandonato la moglie, ha tradito il suo unico amico, Guido Cavalcanti, e anche nelle accuse di baratteria che gli costarono l'esilio qualche opacità c'era. Il suo talento, di cui era assolutamente consapevole, è stato l'unico risarcimento ai tanti dolori che gli ha dato la vita. La consegna del Paradiso doveva essere lo strumento per ottenere il perdono di Firenze, ma la conclusione dell'opera è coincide con la sua morte». Anche l'amore verso Beatrice è molto più fisico di come siamo abituati a conoscerlo. Nel film c'è una scena molto forte in questo senso. «Ho solo cercato di rappresentare un sogno che Dante fa e che descrive nel primo sonetto della Vita Nova. Ion adolescente di oggi si riconosce mentantissimo in quel ribollire dei primi struggimenti amorosi. Adesso si brucia tutto subito, lui invece ci ha messo nove anni prima di rivedere Beatrice e ottenere da lei un “vi saluto”. Pure io per due anni sono andato dietro a una ragazza, nel senso che la seguivo nel tragitto che faceva fino a casa. A differenza di Dante, non ho nemmeno sentito la sua voce, perché non ho mai trovato il coraggio di fermarla. Allora pensavo di essere un caso patologico. Invece ora, quando parlo con uomini che hanno più o meno la mia età, quasi tutti mi dicono che si comportavano come me».
Nel film c'è anche un fine didattico? «Certo. Chi lo vedrà conoscerà molte cose su Dante che prima ignorava. E poi si sentono tanti suoi versi, inseriti in un contesto narrativo che li rendono accessibili a tutti».
Torna un tema già al centro di altre sue opere: il mistero della creatività. Un mistero che la ossessiona, come ha raccontato lei stesso, da quando, giovane e promettente clarinettista, smise di suonare dopo aver sentito Lucio Dalla, rendendosi conto che non sarebbe mai arrivato al suo livello.
«Dante proveniva da una famiglia di commercianti, di piccoli possidenti terrieri che non avevano alcuna sensibilità artistica. Io penso che un ruolo molto importante lo hanno giocato i dolori che ha provato, dolori che hanno sviluppato la sua sensibilità e che ha sublimato con la poesia».
A tal proposito, c'è un'altra scena molto forte in cui il piccolo Dante è costretto prima a vedere sua madre morire e poi a baciarla.
«La stessa cosa è accaduta a me. Mi prendevano in braccio e poi dovevo baciare zii e nonni appena morti con i loro volti già gelidi. Era una pratica molto comune quando ero bambino».
Colpisce nel suo film il realismo, sembra di vivere davvero nel Medioevo. Come ci è riuscito?
«Se avessi dovuto ricostruire quegli ambienti in studio avrei dovuto almeno triplicare il budget a disposizione e non avrei comunque raggiunto questo risultato. Invece abbiamo scovato dei luoghi e delle chiese, soprattutto in Umbria, in gran parte ignoti, ea volte lasciate all'incuria, eppure ancora magnifici».
Nel rigore della ricostruzione storica, c'è qualcosa di totalmente inventato?
«La lettera scritta da Dante con cui Boccaccio si asciuga le lacrime. Non esiste alcun manoscritto di Dante, a differenza di tutti gli altri poeti della sua epoca, da Petrarca allo stesso Boccaccio. E questo è molto strano, perché lui è stato in tutte le signorie più importanti del suo tempo. Se non ci fosse stata la biografia di Boccaccio, noi non sapremmo moltissime cose di lui, compresi gli anni della sua nascita e della sua morte. Dante resta un grande mistero».