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Civil War, ovvero: Alex Garland perché non fai una saga? | Bad Movie | Cinema – BadTaste.it


Il Bad Movie della settimana è Civil War di Alex Garland, al cinema dal 18 aprile

Premessa

Civil War è il quarto lungometraggio diretto da un ragazzino inglese che scrive un libro a 26 anni poi diventato un film con la più più grande star cinematografica di quel periodo ovvero Leonardo DiCaprio. Dopo The Beach (libro 1996, film 2000) Alex Garland si lega ancora al regista Danny Boyle per il quale scrive il neo-zombi movie 28 giorni dopo (2002; primo successo commerciale da protagonista per il premio Oscar 2024 Cillian Murphy e dibattito tra appassionati horror visto quanto cavolo corrono questi zombi qua rispetto a Romero e Fulci). Seguirà, sempre con Boyle, la fantascienza adulta tarkoskiana Sunshine (2007). Ma Garland è anche colui che rimaneggia non accreditato un sequel degli zombi velocisti a Londra intitolato 28 settimane dopo (2007) più altri due adattamenti da testi inglesi: un libro (Non lasciarmi) e un fumetto (Judge Dredd). Poi è iniziata una carriera da regista solista che, con soli quattro lunghi e una serie, è già molto caratterizzata.

I titoli sono Ex Machina (2014; l’autore di questo articolo è anche autore di uno dei suoi peggiori refusi nei 10 anni di videorece per BadTaste.it), Annientamento (2018; film originale Netflix quando era una novità), Men (2022) e Civil War (2024). La serie in streaming si intitola Devs (2020). I film parlano spesso di tycoon nerd fascistoidi, tecnologia fantascientifica, alieni, androidi, militari e uomini che odiano le donne. La serie Devs, dove già troviamo nel cast Nick Offerman e Cailee Spaeny, è composta da otto magistrali episodi da 50 minuti l’uno che rendono pop la teoria quantistica prima che diventasse mainstream con Marvel Cinematic Universe o Everything Everywhere All At Once (2023). Si parla in Devs di multiverso, tycoon nerd (again) e determinismo vs libero arbitrio. Qualcuno in quello show tv scopre come poter andare indietro nel tempo per vedere Gesù Cristo sulla croce. Ora Garland con la sua quarta regia va avanti nel tempo per vedere gli Stati Uniti sulla croce.

C’è una parola chiave per iniziare ad analizzare Civil War.

civil war film

Modulare

È l’approccio usato da Garland. Ecco 109 minuti semplicissimi, e qualche volta semplicistici, che potrebbero essere trattati in futuro come elementi separati compatibili dentro un sistema. Forse siamo già dentro una saga e ancora non lo sappiamo. Infatti sarebbe geniale, e tutto sommato naturale, che A24, se vuole diventare veramente anche uno studio per elevated blockbuster oltre che horror, trasformasse Civil War in una bella epopea da sviluppare in più di una direzione e cornice narrativa.

Perché usiamo il termine modulare? Perché Garland non ha alcun interesse a dirci perché gli Stati Uniti sono in guerra intestina, da quanto tempo è cominciata (siamo forse nel 2032) o che relazione abbia il mondo (la Cina che ne pensa? E l’Europa?) con questi statunitensi che si stanno sparando e bombardando da anni. Praticamente il film sembra già un sequel del meraviglioso Il mondo dietro di te (2023) di Sam Esmail che dunque potremmo vedere quasi come antefatto di Civil War (e se un domani dei registi particolarmente affiatati e astuti ci svelassero nel corso del tempo che i loro film fanno parte di un universo condiviso? Non sarebbe interessante?). La guerra civile statunitense tanto evocata in questi anni a causa della figura divisiva di Donald Trump in questo film è già vissuta, già accaduta, quasi ormai prevedibile come Ted, l’orsacchiotto magico che parla e si muove creato da Seth MacFarlane.

All’inizio fibrillazione, poi dopo un po’ indifferenza. Garland ci porta già dentro questa monotonia. Sembra tutto già digerito e secolarizzato sotto il sole di una primavera prorompente (o addirittura è già estate?) quando inizia la nostra storia. Sarà necessario inquadrare gente che si uccide l’un l’altra ma anche fiori bellissimi che nonostante la violenza e l’orrore continuano a crescere rigogliosi e indisturbati o anche boschi che contengono fiamme così sfacciate che li rendono ancora più sexy. Il Presidente Usa senza nome è al terzo mandato (quindi ha già forzato la Costituzione), ha dismesso l’Fbi (buffo: nel 2023 abbiamo visto quando nasceva grazie a Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese) ed è asserragliato a Washington in attesa che il Texas e la California, insieme, vadano a stanarlo. Texas e California pappa e ciccia contro un dittatore? I due stati hanno lanciamissili, caccia che fanno piroette in cielo manco fosse Top Gun, una nuova bandiera (due sole stelle e le solite strisce), catene di comando condivise e tattiche militari unitarie. Un po’ strano. Come immaginare le regioni di Veneto e Toscana che si scoprono irresistibilmente attratte l’un l’altra. Chissà cosa è successo per stimolarli a farlo.

civil war jesse plemons

E qui c’è la genialata di Civil War: Garland non vuole dircelo, esattamente come non ci dice da dove proviene il suo Presidente interpretato da Nick Offerman. Il regista inglese non cerca informazione, dramma politico o satira ma un road movie che non ammorbi ma intrattenga, sotto le due ore e sempre sotto un sole splendente, con tanti prati verdi, un mondo disabitato (mai dimenticare che 20 anni fa con Boyle il buon Garland si diverte a svuotare Londra per l’inizio di 28 giorni dopo). I vecchi muoiono mentre i giovani sognano, e fotografano, un futuro che forse sarà migliore o anche solo più civile. Ma la sceneggiatura è così striminzita in fatto di cause e fazioni dentro la Guerra che, in chiave modulare, è come se stessimo vedendo solo un pezzetto del mosaico. Civil War è un action movie dentro un contesto che potrebbe tranquillamente giustificare un altro tipo di contenuto o genere audiovisivo. Quattro giornalisti decidono che sia tempo di spostarsi da New York a Washington per intervistare il Presidente e scattare qualche foto. Il film racconta le loro 857 miglia partendo dalla Grande Mela per arrivare alla capitale politica passando per il West Virginia. 109 minuti di notti all’addiaccio, sparatorie destabilizzanti in cui non vediamo da dove ci crivellano di colpi stile Full Metal Jacket (c’è una sequenza praticamente omaggio alla scena della solitaria cecchina del film di Kubrick), scambi generazionali, fosse comuni, miliziani razzisti che impallinano chi viene da Honk Hong, paesini indifferenti a tutto, genitori ignavi che vivono in fattorie del Missouri o del Colorado. Esistono anche duellanti che non appartengono né ai lealisti del Presidente né al Fronte Occidentale della strana coppia Texas & California. Conosciamo meglio i nostri protagonisti.

Kirsten Dunst Civil War

That’s the press, baby!

In Italia oggi the press è molto depressa. Da quelle parti in questo scenario fantapolitico? Diciamo che stanno messi non troppo peggio di noi. Usiamo la battutona di Humphrey Bogart (in italiano: “È la stampa bellezza”) contenuta ne L’ultima minaccia (1952) di Richard Brooks per intitolare il paragrafo dedicato a questi giornalisti residuali al centro di Civil War. Chi sono?

Joel (Wagner Moura) – Un nome dal sapore The Last of Us. Esaltato gen x ai limiti dell’incoscienza radente l’idiozia più pura. O ghigna come un deficiente per l’adrenalina quando è vicino a chi si mitraglia contro o piange come un bamboccio perché gli uccidono qualche amico sotto gli occhi. C’è la guerra civile già anni, la gente si fa cose orribili da tempo ma lui, che di mestiere dovrebbe fare il giornalista, forse non l’ha decodificato proprio benissimo. Ci chiediamo quale sia la testata che ha scommesso su questo “genio” che fuma le sigarette come fossero canne e viceversa. Viene fuori che lavora per la nota agenzia di stampa Reuters (ci aspettiamo da un momento all’altro che quelli della vera Reuters contattino Garland indignati per specificare che non avrebbero mai impiegato uno scemo come Joel). Già la nostra categoria non se la passa al momento proprio benissimo ma con personaggi come Joel… la caduta pare inesorabile. Bei tempi quando eravamo Robert Redford o Dustin Hoffman di Tutti gli uomini del Presidente (1976) o anche Mel Gibson di Un anno vissuto pericolosamente (1982), Nick Nolte in Sotto tiro (1983) o Megan Twohey e Jodi Kantor in Anche io (2022). Sappiamo che Joel viene dalla Florida, sogna di intervistare il Presidente una volta deposto (chissà come mai non ci stupiamo se chiede dei consigli sulle domande da fare) e ha in mente di intrufolarsi fino a Washington addirittura superando quella Charlottesville ultimo avamposto del Fronte Occidentale. Il disperato piano di Gandalf di mandare Frodo e Sam a Mordor verso Monte Fato per distruggere l’anello del potere era più strategico e accorto. Il vecchio istari contava infatti sulle doti magiche del passare inosservati o muoversi silenziosamente tipiche degli hobbit. Diciamo che questi giornalisti sono invece un po’ più casinari, approssimativi, incoscienti, ingenui e ben più rumorosi di quei due eroici mezzuomini o mezzomi come si dice oggi.

Lee Smith (Kirsten Dunst) – La co-protagonista del film. Fotografa gen x molto nota con occhi socchiusi assai stanchi, umore tendente al disagio più puro (la sposa bipolare di Melancholia di Lars von Trier, sempre interpretata da Dunst, era al confronto un’allegrona) e atteggiamento rassegnato al peggio. È una fotoreporter che ha visto così tanti uomini e donne bruciare davanti a lei che non distingue più troppo un oggetto da un essere umano. Non sappiamo se è l’atrocità degli ultimi anni ad averla così intristita o forse le troppe ore accanto a un tipo come Joel. Sicuramente la giornalista di guerra Marie Colvin di Rosamund Pike in A Private War (2018) di Matthew Heineman era più vitale e pittoresca con la sua benda sull’occhio da Jack Sparrow e la voglia ogni tanto di far l’amore (nel cinema di oggi non è considerato un sollievo) o scolarsi una bottiglia di whiskey rispetto a questa collega alienata che si trascina apatica nei minuti iniziali del film di Garland. Ci vorrà qualcuno, o qualcuna, per tirarla su.

cailee spaeny civil war

Jessie Cullen (Cailee Spaeny) – La crescente protagonista del film col passare dei minuti. Aspirante fotografa gen z fan della mitica Lee Smith ma mai al punto da diventarne acritica groupie. Jessie è così in gamba da fotografare ancora con la pellicola (Nolan sarebbe fiero di lei), riuscendo a controllare la qualità degli scatti con ciò che rimane del suo smartphone sulle tribune di uno stadio di football abbandonato. Inizialmente Lee quasi non la sopporta ma poi la pischella è sempre più convincente e intrigante fino a un momento dentro un emporio in cui addirittura le strapperà un sorriso con un escamotage (che bel momento di cinema tra Dunst e Spaeny). Le due inizialmente sono quasi bizzose (Jessie: “Dunque mi fotograferesti anche da morta?” Lee: “Sì”) con la veterana che prova in tutti i modi a scoraggiare la giovane a intraprendere la sua stessa carrier. Poi, in un modo forse un po’ troppo prevedibile e telefonato in sceneggiatura, le cose cambieranno del tutto verso i minuti finali. La vincitrice della Coppa Volpi a Venezia per Priscilla ci regala una prova ai limiti della perfezione. Stiamo imparando a conoscere un’attrice che senza strafare, incarna molto bene il ruolo della fanciulla magari senza esperienza ma con parecchio sale in zucca.

Sammy (Stephen McKinley Henderson) – Il boomer del gruppo. Infatti l’ottimo Henderson che lo interpreta è un signore classe 1949. Se il film è ambientato, come pare, nel 2032, ecco che Sammy potrebbe stare sui 70, forse 75 anni. A differenza di Joel pare avere un quoziente intellettivo piuttosto alto. Lavora per il New York Times o meglio “quel che ne è rimasto”. Garland non dà il massimo quando gioca per qualche secondo sulla rivalità professionale tra Joel, Lee e Sammy. Sono momenti down di Civil War perché non esistendo mai nel film caporedattori o direttori o editori, non percepiamo mai la sfida tra colleghi all’interno di un panorama magari sì malconcio ma ancora esistente di testate giornalistiche tra loro concorrenti. Ma per fortuna Garland, interessato principalmente ad azione e viaggio, si concentra così poco su quell’aspetto da non farci desiderare più informazioni. In un film italiano siamo sicuri che Sammy sarebbe l’unico a sopravvivere. Dentro questa cinematografia, e cultura anglosassone, invece funziona esattamente al contrario.

Dream Baby Dream

La bellissima chiusa di Garland con pezzo magnifico dei Suicide datato 1979 è tutta dedicata all’ottima Jessie di una sempre più intrigante Cailee Speany. I giovani fotografano e sognano una nuova realtà. Chi non crede più, chi è pessimista, chi è nichilista, chi pontifica, chi deprime e chi è depresso… si togliesse dalla scatole per cortesia. Jessie probabilmente passerà alla Storia come autrice di uno degli scatti più importanti del nuovo millennio. Mentre Joel realizza che Sammy aveva ragione quando gli diceva che i dittatori negli ultimi momenti della loro vita di solito pensano solo a salvarsi la pelle (citando Gheddafi, Mussolini e Ceaușescu), Jessie immortala quella morte che potrebbe significare nuova vita.

Sarà questa donna nemmeno trentenne ad affiancare fotoreporter storici del ‘900 come Robert Capa (il personaggio di Nick Nolte in Sotto tiro era ispirato a lui), Joe Rosenthal (il controverso scatto Raising the Flag on Iwo Jima), Eddie Adams (lo sparo in testa al prigioniero Vietcong Nguyễn Văn Lém) o Nick Ut (la Napalm Girl sempre durante la Guerra del Vietnam). Chissà se nell’universo di Civil War esiste ancora il Premio Pulitzer (riconoscimento americano nato nel 1917 che, alla stregua dell’Oscar, è diventato attestato di eccellenza mondiale). Se il conflitto in corso da anni ha cancellato il Pulitzer così come l’Fbi, speriamo che Texas e California lo rimettano in piedi per consegnarlo a questa fotografa.
Jessie Cullen se lo meriterebbe proprio.

Conclusioni

Dopo l’esordio con il botto in Usa, le speculazioni possibili sono infinite proprio per la natura modulare dell’approccio garlandiano. Non sarebbe divertente esplorare negli anni a venire questa realtà alternativa cinematografica sempre sperando che la realtà americana non la superi nei prossimi mesi in fatto di bestiale spettacolarità? E comunque dopo Oppenheimer non possiamo che brindare al grande ritorno del cinema politico pop in Usa su grande schermo dopo anni in cui gli esperimenti più interessanti li avevamo visti solo ed esclusivamente in streaming proprio come il gemello di Civil War, o addirittura l’antefatto: Il mondo dietro di te di Sam Esmail.

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